Galleria Alessandro Branz Galerie

 

OMAGGIO A BRUTO
Che c’entra il ciclo magico della grande Inter di Helenio Herrera con la costruzione del ponte che a nord di Merano collega la città con la Val Passiria e che fu edificato per non dover più valicare l’angusta salita di Monte Zeno? C’entra, eccome, se tutto viene vissuto attraverso gli occhi di un bambino e si gioca sulle ali del mito e della fantasia.
Erano gli anni a cavallo fra la prima e la seconda metà dei Sessanta. Soprattutto in primavera Merano era uno splendore: odorava degli intensi profumi dei suoi numerosi giardini, si alimentava della brezza del Passirio e sprigionava una luminosità in certi scorci quasi irreale. Cominciavano ad affacciarsi i primi turisti, per lo più germanici, e gli esercizi pubblici si apprestavano a tollerarne le richieste che si facevano di anno in anno sempre più petulanti.
Ma in quel 1964 comparivano a Maia Alta dei turisti speciali, che turisti non erano: si trattava infatti delle maestranze lombarde, nello specifico milanesi, che si accingevano alla grande impresa, che sarebbe durata alcuni anni, di edificare una variante che avrebbe consentito al traffico cittadino di immettersi con una certa facilità sull’arteria per la Val Passiria.
Uno di questi operai, per la precisione il cuoco, rimase colpito da un ragazzino che la sera della finale di Coppa dei Campioni (allora si chiamava così) manifestò la propria gioia per la vittoria dei colori nerazzurri in modo così intenso e prorompente da far rimanere a bocca aperta anche un tifoso navigato come lui. Fu per Bruto una rivelazione: lasciate per un momento da parte posate e fornelli si avvicinò a quel ragazzino e se lo fece amico. Anzi, divenne uno di famiglia, conobbe e fraternizzò con i genitori di quel tifoso in erba, si mise a frequentare il bar da loro gestito e letteralmente inondò il ragazzino di doni che avevano una caratteristica in comune: l’essere espressione della squadra meneghina, fosse una maglia bianca con la fascia nerazzurra trasversale, fossero le scarpe da calcio o una bandiera dell’Inter che sventolò altezzosa per le strade di Merano il giorno di non ricordo più quale epica vittoria.
Ma soprattutto il merito di quella pasta d’uomo di Bruto fu di alimentare nel ragazzino il senso del mito, la capacità di andare oltre la banalità della vita quotidiana, il non accontentarsi mai delle risposte facili, il sapere che c’è sempre qualcosa di profondo cui agganciarsi anche nei momenti più difficili. E poco importa se tutto ciò avveniva attraverso i fallaci fasti di un mondo fatuo come quello del pallone: l’importante è che in quegli anni decisivi è scattato qualcosa di significativo che avrebbe accompagnato quel ragazzino per lungo tempo.
Anche perché, attraverso Bruto, il ragazzino ebbe modo di conoscere pure la dura realtà del lavoro operaio, capì che il mondo non è fatto solo di sogni e cose belle, vide i cantieri in azione e sentì l’odore acre dei cameroni con i letti ancora da fare. Ma questa rivelazione non entrò in collisione con il mondo mitico alimentato da quell’altra passione. Anzi: questo insieme apparentemente contraddittorio di sentimenti cominciò a far intravvedere al ragazzino che è possibile spendersi per qualcosa di giusto e mettere al servizio i propri ideali per un mondo migliore. Insomma: tradurre il mito in azione.

 

 

 

Comincia la discussione

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

*

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.